Lanciato sulla Stazione Spaziale Internazionale l’esperimento Zeprion, che avrà il compito di confermare il meccanismo molecolare alla base di un innovativo protocollo farmaceutico per contrastare le malattie da prioni. Sviluppato da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui le scienziate e gli scienziati italiani delle università di Milano-Bicocca e Trento, della Fondazione Telethon, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dell’Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ibba), l’esperimento potrebbe avere ricadute importanti anche per altre malattie
Un esperimento lanciato con successo, mercoledì scorso 2 agosto, verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), potrebbe portare ad una validazione del meccanismo di funzionamento di un protocollo del tutto innovativo per lo sviluppo di nuovi farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo. Frutto di una collaborazione internazionale che coinvolge diversi istituti accademici e l’azienda israeliana SpacePharma, l’esperimento ZePrion vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Università Milano-Bicocca, l’Università di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), e l’Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ibba). Decollato con la missione spaziale robotica di rifornimento NG-19 dalla base di Wallops Island, in Virginia (USA), ZePrion si propone di sfruttare le condizioni di microgravità presenti in orbita per verificare la possibilità di indurre la distruzione di specifiche proteine nella cellula, interferendo con il loro naturale meccanismo di ripiegamento (folding proteico).
Il successo dell’esperimento ZePrion fornirebbe un possibile modo per confermare il meccanismo molecolare alla base di una nuova tecnologia di ricerca farmacologica denominata Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting (PPI-FIT), sviluppata da due ricercatori delle Università Milano-Bicocca e di Trento e dell’INFN. L’approccio PPI-FIT si basa sull’identificazione di piccole molecole (dette ligandi), in grado di unirsi alla proteina che costituisce il bersaglio farmacologico durante il suo processo di ripiegamento spontaneo, evitando così che questa raggiunga la sua forma finale.
“La capacità di bloccare il ripiegamento di specifiche proteine coinvolte in processi patologici apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per malattie attualmente incurabili”, spiega Pietro Faccioli, professore dell’Università Milano-Bicocca, ricercatore dell’INFN, coordinatore dell’esperimento e co-inventore della tecnologia PPI-FIT.
Un tassello finora mancante per la validazione della tecnologia è la possibilità di ottenere un’immagine ad alta risoluzione del legame tra le piccole molecole terapeutiche e le forme intermedie delle proteine bersaglio (quelle che si manifestano durante il ripiegamento), in grado di confermare in maniera definitiva l’interruzione del processo di ripiegamento stesso. In genere, questo tipo di immagine viene ottenuta analizzando con una tecnica chiamata cristallografia a raggi X cristalli formati dal complesso ligando-proteina. Nel caso degli intermedi proteici, però, gli esperimenti necessari non sono realizzabili all’interno dei laboratori sulla Terra, in quanto la gravità genera effetti che interferiscono con la formazione dei cristalli dei corpuscoli composti da ligando e proteina, quando questa non abbia ancora raggiunto la sua forma definitiva. Questo ha spinto le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione ZePrion a sfruttare la condizione di microgravità che la Stazione Spaziale Internazionale mette a disposizione.
“Esiste infatti chiara evidenza che la microgravità presente in orbita fornisca condizioni ideali per la creazione di cristalli di proteine”, illustra Emiliano Biasini, biochimico dell’Università di Trento e altro co-inventore di PPI-FIT, “ma nessun esperimento ha provato fino ad ora a generare cristalli di complessi proteina-ligando in cui la proteina non si trovi in uno stato definitivo”. Esattamente quanto si propone di fare l’esperimento ZePrion, lavorando in modo specifico sulla proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del ‘morbo della mucca pazza’. Questa malattia è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in gravi malattie neurodegenerative dette appunto ‘da prioni’ tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare.
“Anche grazie al sostegno di Fondazione Telethon, che da sempre supporta le mie ricerche per individuare nuove terapie contro queste malattie, abbiamo l’opportunità di validare del meccanismo di funzionamento della tecnologia PPI-FIT, che potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta in questo settore”, aggiunge Biasini.
“In orbita sarà possibile generare cristalli formati da complessi tra una piccola molecola e una forma intermedia della proteina prionica, che in condizioni di gravità ‘normale’ non sarebbero stabili. Questi cristalli potranno poi essere analizzati utilizzando la radiazione X prodotta con acceleratori di particelle, per fornire una fotografia tridimensionale del complesso con un dettaglio di risoluzione atomico. Campioni non cristallini ottenuti alla SSI verranno inoltre analizzati per Cryo-microscopia Elettronica di trasmissione (Cryo/EM)”, sottolinea Pietro Roversi, ricercatore Cnr-Ibba.
ZePrion si compone di un vero e proprio laboratorio biochimico in miniatura (lab-in-a-box) realizzato da SpacePharma, che opererà a bordo della Stazione Spaziale Internazionale e verrà controllato da remoto. Oltre alla componente italiana, la collaborazione ZePrion si avvale della partecipazione delle scienziate e degli scienziati dell’Università di Santiago di Compostela.