Questo avverbio di negazione che normalmente capovolge il significato di un verbo, per la mente umana funziona come una piccola sfida che spesso viene persa. Se diciamo ad un bambino di non buttare la pappa a terra, di non correre, di non mettere un oggetto in bocca, di non toccare, non faremo in tempo a finire la frase che butterà la pappa a terra, correrà, metterà l’oggetto in bocca, toccherà. Certo, è ovvio, è un bambino! Allora se si dice ad un adulto di non pensare ad una giraffa…
Così confidarsi con un amico circa un problema che ci affligge e sentirsi rispondere: “Non ci pensare”, in alcun modo sarà utile al problema o aiuta a risolverlo. Come se nel “non pensarci”, ammesso che ci si riesca, che lo si faccia in maniera continua, l’oggetto del nostro pensare, magicamente si dissolva.
In molte occasioni queste parole, prive di empatia e interesse per ciò che si espone e si vive, hanno lo scopo di chiudere la conversazione per passare quanto prima ad altro, lasciando in chi le riceve delusione, scoraggiamento e forse rabbia per essersi aperti senza trovare accoglimento.
Io stessa quando ero paziente ho attraversato una lunga fase di lamentele su quanto poco venissi ascoltata e compresa da chi mi circondava, quanto tutto fosse difficile, insormontabile, convinta di subire la volontà dell’altro, sfortune continue e così accumulavo “non scelte” ripetendo un copione ormai sgualcito senza inseguire un desiderio.
Questo stesso atteggiamento l’ho ritrovato nei miei pazienti i quali, come me anni prima, si sentivano rispondere un “non ci pensare” che diventa poi la culla in cui ci si dondola in un movimento assopente senza procedere in alcuna direzione. Sofferenze fisiche, problemi sul lavoro, questioni con i figli; insomma tutti quei fastidi cronici del vivere quotidiano vengono così vissuti come causati dall’altro.
La possibilità che dà la terapia psicoanalitica è di riconoscersi responsabili del proprio sintomo, lo spiega bene Nicolò Terminio, psicoanalista lacaniano, riferendosi alla rettifica soggettiva, una parte sempre in evoluzione nella terapia in cui il paziente diventa attivamente impegnato nella cura e si riconosce responsabile nella causa della propria sofferenza e non passivamente assoggettato agli eventi o alla volontà dell’altro.
Ciò mi fa pensare ad una mia paziente che ritornò da me dopo una lunga pausa, era incinta di una gravidanza non desiderata, le settimane passavano e lei non aveva ancora preso una scelta. Quella gravidanza rappresentava il suo essere per sé stessa senza cura, intermittente nella propria presenza, mancante di implicazioni. Il sintomo è così, una gravidanza indesiderata, di cui all’inizio non se ne sa nulla, poi lo si nega, si cerca di ignorarlo, di non pensarci, le settimane passano e con esse arrivano i primi cambiamenti, nel corpo, nei movimenti, nello stato d’animo; anche chi è intorno comincia ad accorgersene, poi però di questa gravidanza bisogna prendersi la responsabilità e sceglierne il destino qualunque esso sia.
Dott. ssa Vincenza Avallone – Psicologa, Psicodiagnosta, Psicoterapeuta, Gruppo analista