Rubrica di Psicologia a cura della Dott.ssa Vincenza Avallone – Psicologa, Psicoterapeuta, Gruppoanalista.
Come psicoterapeuta mi propongo di aiutare le persone in condizioni di fragilità partendo dall’osservazione, non solo di chi ho di fronte in quel momento ma anche del contesto sociale in cui è inserito, affinché la lettura del caso clinico sia quanto più completa, complessa possibile e vada oltre ciò che è concreto.
Recentemente ho iniziato a vedere una donna di settantacinque anni inviata dalle figlie per motivi di ansia, umore depressione, problemi di memoria, ritiro sociale e isolamento.
Questa donna non può essere lasciata sola perché capita che si disorienti, non sappia gestire piccole somme di denaro e nemmeno la quantità dei farmaci giornaliera, così una delle figlie si è trasferita nella casa materna con tutta la sua famiglia, marito e due figli adolescenti anche loro col compito di badare alla nonna quando la loro mamma non può.
I colloqui si svolgono sempre in presenza di una delle figlie o di entrambe quando riescono a venire insieme, la situazione che si presenta assume dei tratti quasi comici: rispondono alle semplici domande che io pongo alla donna, la interrompono quando questa ha delle esitazioni e dai racconti emerge che questo “ agire al posto di” avviene anche nelle cose più banali delle vita quotidiana.
E’ palese che non accettino la condizione in cui la madre si trova, un principio di demenza senile, desiderando che “torni come prima” un prima in cui lavorava come titolare di una piccola impresa, era forte, attiva, appassionata.
La donna però, non del tutto consapevole di quello che le sta capitando, sembra accogliere più delle figlie l’avanzare dell’età, gli acciacchi e accettare di aver bisogno di supporto nelle operazioni in cui in passato era autonoma.
La domanda è: chi mi sta chiedendo aiuto e per cosa? Di sicuro non la donna anziana, che non ha chiesto di andare dalla psicologa ma vi è stata portata.
Questo esempio apre ad un tema sociale attuale e comune a molti, quello del caregiver. In Italia, secondo dati ISTAT, sono 8,5 milioni (il 17,4% della popolazione) i caregiver, ovvero i professionisti che si prendono cura di una persona che per malattia, infermità o disabilità, croniche o degenerative, non è autosufficiente, necessita di un’assistenza totale e continua di lunga durata o è titolare di un’indennità di accompagnamento. In alcuni casi, i caregiver sono gli stessi famigliari del paziente: in Italia 7,3 milioni (il 14,9%).
La “presa in carico” di una persona da parte dei familiari non si limita alla gestione di una patologia, ma si estende alla qualità di vita . Le classi di età maggiormente impegnate nel fornire assistenza sono quelle comprese tra i 45 e i 54 anni e sono principalmente le donne che, nel 60% dei casi, hanno dovuto abbandonare la loro attività lavorativa.
Quanto all’attività di assistenza, il 53,4% vi dedica meno di dieci ore a settimana, mentre il 25,1% supera le 20 ore e il 19, 8% svolge attività di assistenza per almeno dieci ore a settimana.
Col procedere dei colloqui mi rendo conto che vi è un dato oggettivo riguardante le difficoltà quotidiane della donna, ma cosa più interessante è che i vissuti di ansia, depressione, impoverimento della rete sociale, isolamento non riguardavano lei che, grazie all’aiuto delle figlie, si sente abbastanza soddisfatta del suo tenore di vita, ma viene esperito principalmente dalle figlie che hanno assunto, loro malgrado, un nuovo ruolo, quello di caregiver e intorno ad esso hanno adattato tutta la loro vita.
Quando si diventa caregiver si sta accanto, si supporta, si accudisce il familiare che ha subito una diminuzione o una perdita di autonomia, rendendogli possibile l’esistenza di una quotidianità.
A prescindere dalla disabilità o patologia del proprio caro, quello che esperisce il caregiver è in principio una incredulità per la diagnosi e per la nuova condizione assunta, diagnosi che talvolta arriva dopo lunghe e stancanti indagini che, per quanto può essere infausta, rappresenta comunque una risposta che fa uscire dall’ignoto e dal dubbio.
Ci si percepisce impotente, inutili dunque vi è la rabbia e il senso di colpa per il timore di non essere adeguati al compito.
Cambia lo stile di vita, si rinuncia alle attività che si era soliti fare, si può essere obbligati ad uscire dal mondo del lavoro con tutte le difficoltà che questa scelta comporta continuando comunque ad affrontare una spesa non prevista legata ai bisogni materiali del caro ammalato con conseguente il ritiro sociale.
Si aggiungono poi tutte quelle problematiche tecniche come l’igiene personale, la motilità, i pasti, la somministrazione dei farmaci, la moltitudine di visite mediche.
L’assetto domestico subisce inevitabili variazioni se al nucleo familiare si aggiunge un altro componente come ad esempio il nonno che fino al quel momento viveva in autonomia, oppure pensiamo ai traslochi, agli spostamenti negli ambienti di una stessa casa, ciò richiede un enorme sforzo di adattamento.
Allo stesso modo cambiano le dinamiche familiari che tendono a diventare più conflittuali.
Alcune volte i componenti della famiglia devono abituarsi alla presenza di un estraneo in casa, come l’infermiere, l’oss, il fisioterapista, che entra nell’intimità della vita quotidiana.
I caregiver sperimentano una tensione che si manifesta sul piano fisico, raccontano di avere dolori dovuti alle manovre pesanti, disfunzioni immunitarie e problematiche che derivano dal non aver tempo e risorse per curare sé stessi.
Queste due donne apparivano trasandate, riferivano di non ricordarsi più l’ultima volta in cui erano andate da un parrucchiere o avevano prenotato una visita medica per loro stesse.
Ecco che i colloqui della madre diventano contenitore dei loro sfoghi in cui emergono sentimenti di vulnerabilità, depressione, ansia, rabbia per le limitazioni nella loro vita e vergogna per la condizione di non autosufficienza del caro crea.
Dunque il sostegno psicologico si inserisce come riconoscimento di fragilità e di bisogni di cui non sempre il caregiver ha consapevolezza. Essere sostenuti significa rinforzare modalità flessibili e adattabili di andare avanti, significa aiutare a “reggere” una condizione di sofferenza , significa fornire le strategie di coping con un conseguente alleggerimento del carico emotivo e di lavoro.
Queste strategie possono riguardare il mantenimento delle abilità possedute e perciò sfavorire la sostituzione totale da parte del caregiver in quelle attività in cui l’autonomia del paziente è ancora possibile e conservata.
Un ulteriore lavoro va fatto sull’affidarsi, sono tipiche le affermazioni come “faccio tutto io, non ho bisogno di aiuto” che rimandano ad un senso di onnipotenza come risposta al sentirsi in colpa nel sapere che il proprio care è affidato/abbandonato alle cure di un estraneo; ma l’onnipotenza impedisce di vedere con obiettività le proprie capacità e la reale condizione del caro.
Un altro strumento di aiuto può avvenire tramite i gruppi di sostegno, secondo Yalom (2005) il gruppo di terapia ha un potere trasformativo, le persone che si incontrano agiscono l’una sull’altra, ogni componente vede nell’altro parti di sé, si esce da una visione egocentrica delle cose, vi è un notevole contatto emotivo, ci si sente simili all’interno di problematiche che si credono uniche e proprie, ogni partecipante è d’aiuto agli altri membri, si sviluppano tecniche di socializzazione e si apprende dall’esperienza dell’altro.
Il gruppo ha potere trasformativo, le persone che si incontrano agiscono le une sulle altre e confrontandosi con persone che si trovano nelle medesime difficoltà e disagio sentiranno di non essere sole, inoltre il gruppo promuove e rinforza modalità flessibili di andare avanti e capacità di adattarsi ad una condizione di sofferenza.