Ci sono alcuni aspetti dell’esperienza della maternità che non avevo messo in conto.
Inizio da quella che forse più di tutti ho fatto fatica a pensare e poi ad accettare: la maternità non mi ha completata. Nonostante sia figlio di un grande desiderio ciò che è accaduto col suo arrivo non si è caratterizzato come un tassello mancante e nulla ha mai dovuto colmare né nella coppia né in me. Questa affermazione sembra quasi un acuto venuto male o il segno che graffia un foglio, e all’inizio di questa riflessione tale assunzione mi sembrava non aver senso, se un figlio non arriva per completare, perché arriva? Forse la risposta non ha nulla a che fare col completamento di qualcuno o di una relazione, forse lo spazio per un bambino, per un bambino desiderato, non è uno spazio vuoto ma uno spazio già completo, sufficientemente completo da poterlo accogliere.
Non lo si dovrebbe collocare emotivamente dove c’è una mancanza ma dove c’è un pieno, non dovrebbe arrivare dove non ci sono gli strumenti ma piuttosto dove c’è il giusto equipaggiamento così che egli non arrivi per i suoi genitori o per un fratello che c’è già, non è lo scopo di qualcuno, l’obiettivo di una coppia ma sono i suoi genitori, quella coppia a dover essere qualcosa per quel bambino, un pieno per lui, struttura per lui, contenitore per lui.
E se non completa talvolta lacera, come quella sensazione strana che a distanza di tempo alcuni vestiti che contenevano la pancia non si indossano più per troppa nostalgia, una presenza così potente che la mancanza si sente subito dal momento in cui nasce, il passaggio dentro fuori, tanto pensato tanto sconosciuto, nove mesi in cui si fa grande e i visceri piccoli, lui cresce e gli organi si schiacciano, allo stesso modo anche dopo, il tempo per sé diventa stretto. Un continuo adattamento, lutti e ricostruzioni, perdite e crescita, unità e dualità, attaccamento e distacco. Lacera la sensazione di inadeguatezza e tutto ciò che sembra intimo ma invece è brutalmente sociale, come lo sguardo dell’altro sulla coppia, che chiede quando arriverà ancor prima che sia un desiderio della coppia stessa, lo sguardo delle altre mamme, anche della propria di madre, che diventa un confronto competitivo su qualsiasi momento come il tipo di parto, l’allattamento, le skills di volta in volta acquisite dal neonato, i tempi e il dolore.
Perché accade che a un certo punto il figlio, nostro ed altrui, diventi oggetto inconsapevole di competizioni, così come il dolore legato alla maternità, come se una madre per autorizzarsi a sentirsi brava dovesse passare per due portoni, quello della sofferenza e quello delle capacità educative, e per poter capire quanto si è brave occorre il confronto, un confronto che prende le forme di una competizione. Vince chi più ha penato. E se la sofferenza non è stata abbastanza sembra quasi che ci si senta in colpa, che occorra trovare una giustificazione e anche in quel caso dimostrare, che si è state capaci di lavorare fino all’ultimo, che subito si è state con i piedi a terra, che non si ha avuto bisogno di aiuto. Esiste una ragione che giustifichi questa perdita di contatto con la dimensione del sentire? Esiste un modo per evitare di venir agganciate da questo meccanismo del dimostrare?
Ricordarsi dell’unicità del legame. Tutto ciò che accade in quella coppia madre – bambino ha a che fare con quella coppia e non con un’altra, la sintonia, gli aggiustamenti ma ancora di più la capacità della madre di soddisfare i bisogni psichici del bambino. Bion spiega che la madre recepisce i messaggi del bambino, li assorbe, li elabora e glieli restituisce in una forma a lui tollerabile e questo accade sempre, anche in assenza di parole e pianto, infatti la madre di un bambino che, per motivi neurologici o perché tracheotomizzato, non ha accesso alla parola è capace attraverso la sua esperienza di fornire a quel bambino un contenitore comunque adeguato; così lo schiocco della lingua, il tamburellare delle dita, il rumore delle lenzuola, la rotazione del capo, i movimenti oculari, la diversa manipolazione degli oggetti, verranno accolti da quella madre che li riconoscerà, come nessun altro intorno al bambino sa fare, e restituirà una risposta.
Dott.ssa Vincenza Avallone
Psicologa, Psicoterapeuta, Gruppoanalista