La “firma” dell’inquinamento da mercurio sul pesce causato dall’uomo

Uno studio condotto dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia) di Rende (Cosenza) ha determinato, per la prima volta, la “firma” dell’inquinamento antropogenico da mercurio -in termini di settori di emissione e regioni geografiche di provenienza- sul consumo di pesce proveniente dalle diverse zone di pesca dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO).

La ricerca, pubblicata sulla rivista Environment International, ha incrociato modelli numerici e informazioni reperite in banche dati rese disponibili da istituzioni internazionali, tra cui i dati riferiti all’inventario globale delle emissioni di mercurio AMAP/UNEP 2013*, e ha quantificato il mercurio antropogenico emesso nel 2012 e depositato nel corso dello stesso anno nelle diverse zone di pesca. I ricercatori hanno, quindi, valutato la persistenza di tale inquinante tramite l’analisi del pesce consumato negli anni successivi (anni 2012-2021, il mercurio, infatti, è un inquinante persistente che ha effetti a lungo termine negli ecosistemi), e stimato la sua firma in ‰, sul pesce proveniente dalle varie “zone di pesca” consumato nel mondo.

Se nel Mar Mediterraneo -ovvero la zona di pesca 37- l’impatto maggiore è dato dalle emissioni di mercurio dagli impianti di produzione di energia presenti in Europa, a livello globale emerge che il settore produttivo che ha maggiore impatto in tutte le zone di pesca è quello delle miniere d’oro artigianali e su piccola scala (ASGM), mentre l’area geografica in cui sono maggiori le emissioni che favoriscono la contaminazione da mercurio è l’Asia Orientale.

Per quanto riguarda il Mar Mediterraneo, tra gli impianti di produzione di energia, quelli alimentati a carbone contribuiscono in modo quasi totalitario (oltre il 95%) all’inquinamento da mercurio. La maggior parte di queste emissioni provengono dall’Europa centrale e orientale (quasi il 40%) e dalla Germania (il 25%), mentre l’Italia contribuisce solo per il 2%.

Altri settori individuati come fonti di emissioni sono -oltre alle miniere d’oro artigianali e su piccola scala- la produzione industriale di oro, la produzione di cloro-alcali; la combustione per la produzione di energia nell’industria; la combustione residenziale; la produzione di cemento; la produzione di vetro; le industrie non ferrose; le industrie del ferro e dell’acciaio; l’attività di incenerimento dei rifiuti; e il trasporto su strada. Le regioni scelte per tracciare la provenienza delle emissioni sono invece Stati Uniti e Canada (NAM); Europa e Turchia (EUR); Asia meridionale (SAS); Asia orientale (EAS); Asia sudorientale (SEA); Australia e Nuova Zelanda (PAN); Africa settentrionale  (NAF); Africa subsahariana (SAF); Medio Oriente (MDE); America centrale (MCA); America meridionale (SAM); Russia e Asia centrale (CIS); Circolo polare artico (ARC). Spiega Francesco De Simone, ricercatore del Cnr-Iia che ha firmato lo studio assieme ai colleghi Ian Hedgecock, Delia Bruno, Sergio Cinnirella, Francesca Sprovieri e Nicola Pirrone: “Le emissioni antropogeniche di mercurio sono normate dalla Convenzione di Minamata (https://www.mase.gov.it/pagina/la-convenzione-di-minamata-sul-mercurio), un trattato internazionale del 2013 avente come obiettivo principale la protezione della salute e dell’ambiente. Il mercurio, infatti, è molto tossico, e l’esposizione ad esso avviene principalmente attraverso il consumo di pesce contaminato perchè è nell’ambiente acquatico che tale elemento si trasforma nella forma metilata (in breve, MeHg), rapidamente assimilata dagli organismi acquatici. La sua concentrazione si amplifica, poi, all’interno delle catene alimentari, diventando estremamente pericolosa per la salute umana: è associato a diversi disturbi neurologici e – riuscendo a penetrare attraverso la barriera placentare – pone seri rischi anche per le donne in gravidanza e lo sviluppo del feto”. 

In questo contesto, diventa di primaria importanza stabilire quali sono i settori e le regioni da cui originano le emissioni antropogeniche che maggiormente incidono sulla salute umana attraverso, appunto il consumo di pesce: “Con questo studio, da un lato abbiamo voluto fornire informazioni utili allo sviluppo di politiche di riduzione delle emissioni, mirate a particolari settori e/o regioni, così colmando il divario esistente tra mondo scientifico e decisori politici; dall’altro rivolgerci al grande pubblico: usando la stessa nomenclatura delle zone di pesca FAO riportate a norma di legge su tutti i prodotti ittici venduti nella grande e piccola distribuzione, infatti, è possibile fornire ai consumatori una maggiore consapevolezza riguardo a ciò che inquina i prodotti che comprano e utilizzano”, aggiunge il ricercatore.

La ricerca rappresenta un contributo del Cnr-Iia all’Infrastruttura EIRENE-RI “Environmental Exposure Assessment Research Infrastructure” del network ESFRI, la prima infrastruttura di ricerca pan-europea avente come obiettivo la promozione di studi multidisciplinari integrati nel settore ambiente-salute coniugando le scienze dell’esposizione ambientale con la tossicologia e l’epidemiologia. Tale infrastruttura di ricerca, distribuita in 17 Paesi europei (Nodi) vede il Cnr-Iia nel ruolo di coordinatore del Nodo Nazionale Italiano. EIRENE RI mira ad integrare ed armonizzare le capacità complementari disponibili negli Stati membri, indagando l’esposizione a sostanze chimiche nocive con relativi effetti sulla salute della popolazione europea (effetti sulla salute da fattori di stress ambientali), e affrontando il problema dei fattori di rischio non genetici alla base dello sviluppo di malattie croniche. 

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