Sotto analisi selezione gender neutral, welfare e tutela della genitorialità, formazione e genere, linguaggio inclusivo e molestie.
Il diversity management è l’insieme delle politiche adottate da un’azienda per promuovere la diversità all’interno dell’ambiente di lavoro. Nel mese di aprile 2024, 90 aziende su 630 interpellate (di cui il 41% appartenenti al settore metalmeccanico) hanno condiviso le loro pratiche di diversity management rispondendo a un questionario sui temi della gestione delle risorse umane, del welfare e del work-life balance (equilibrio tra vita privata e lavoro), della formazione aziendale e della certificazione UNI PDR 125:2022, altrimenti conosciuta come certificazione di parità di genere.
La ricerca è stata condotta dal Professor Claudio Riva, del Dipartimento Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università degli Studi di Padova, coordinatore e responsabile scientifico, dalla borsista di ricerca Vittoria Benfatto e ha coinvolto l’Ufficio studi di Fòrema, nella figura di Roberto Baldo, responsabile di progetto e direttore del centro studi.
L’obiettivo dell’indagine
Evidenziare le tendenze attuali delle aziende in materia di gestione della diversità analizzando i processi di gestione delle risorse umane, il welfare, la tutela della genitorialità e la formazione aziendale. Un’indagine che è parte del progetto S.I.A.D.O.M. (Social Innovation Alliance for Diversity management and innovation of Organizational Models), finanziato dal bando P.A.R.I. della Regione Veneto. Alle origini del lavoro di ricerca vi è un contesto in cui i persistenti divari di genere presenti nelle organizzazioni, l’affidamento dei ruoli apicali e i differenziali retributivi e contributivi sono un aspetto critico fondamentale per il benessere lavorativo dei e delle dipendenti, nonché per la sostenibilità organizzativa. In questo senso, il diversity management rappresenta un approccio di gestione delle risorse umane che può fare da driver per il cambiamento nelle organizzazioni, allineato agli obiettivi e alle KPI (indicatori di performance) di strumenti e indici come la certificazione UNI PDR 125:2022, l’European Gender Equality Index e il Diversity Inclusion Index, dell’istituto FTSE Russel LSG Business. Approfondire le pratiche e le politiche di diversity management attualmente in uso nelle imprese costituisce di fatto un primo passo verso una comprensione concreta delle esigenze e dei fabbisogni organizzativi in tema di genere e inclusione.
La ricerca
Selezione gender neutral
Il 70% delle aziende del campione analizzato non fa uso di procedure di selezione gender neutral (pratiche neutrali rispetto al genere dei soggetti), perché non sono mai state prese in considerazione (75%) o perché non vengono ritenute utili. Tra i settori in cui la resistenza verso queste procedure sembra essere più diffusa vi è quello metalmeccanico (48%). L’80% delle aziende non usa procedure gender neutral per la valutazione delle prestazioni; tra queste il 37,8% non è interessato a implementarle in futuro, mentre il 42,2% ritiene che queste procedure potrebbero essere utili, ma attualmente non ne fa uso.
«Dai dati emerge – commentano i ricercatori – che vi è una diffusione limitata di queste procedure a fronte di una più diffusa consapevolezza della loro importanza, probabilmente dovuta a resistenze culturali legate alla percezione di una non-utilità di tali procedure, soprattutto in aziende con una percentuale di donne inferiore al 20%. Anche nella valutazione delle prestazioni vi è un tasso di resistenza molto alto, che si apre a un margine di miglioramento che potrebbe generare effetti positivi anche in altre fasi della vita organizzativa delle persone come progressioni di carriera maggiormente equidistribuite o un minor tasso di turnover aziendale”.
Welfare e tutela della genitorialità
Il 61% delle aziende del campione analizzato non offre servizi di sostegno alla genitorialità, mentre tra le aziende che dispongono di tali servizi i più diffusi sono i giorni extra di congedo (17%) o politiche di affiancamento al rientro (12%). I servizi di welfare più diffusi tra le aziende sono i buoni pasto/spesa (72%), i buoni benzina (47%) la flessibilità oraria (47%) e le convenzioni medico-sanitarie (38%).
«I dati mostrano come non sia ancora diffusa una visione della maternità e della paternità come risorse per l’azienda, da tutelare e supportare attivamente tramite servizi e pratiche. Inoltre, il welfare offerto dalle aziende mostra una propensione a servizi integrativi di supporto al reddito, piuttosto che di supporto alla persona – sottolineano i sociologi –. La motivazione di tale tendenza potrebbe essere ridotta a una mancanza di risorse o a una poca conoscenza dei fabbisogni dei lavoratori e delle lavoratrici. Implementare servizi di welfare più attenti ai fabbisogni della popolazione aziendale offrirebbe un’opportunità anche per sostenere maggiormente i genitori, favorendo un miglior bilanciamento vita-lavoro».
Formazione e genere
Sul fronte della formazione, l’80% delle aziende del campione analizzato non ha svolto alcuna formazione specifica sui temi del genere, della diversità e dell’inclusione perché il tema non è stato ritenuto rilevante (46%), per mancanza di risorse (15%). Invece, tra le 20 aziende che hanno svolto attività formative negli ultimi due anni i temi maggiormente affrontati sono stati: sostenibilità sociale e parità di genere (61%), molestie, discriminazioni e mobbing (56%), gestione del personale e politiche di welfare (50%), benessere e empowerment personale (44%), leadership e team-building (39%), linguaggio inclusivo e tematiche tecniche sulla parità di genere (33% entrambe).
«Rispetto a questo dato viene spontaneo chiedersi se effettivamente quello del genere non sia un tema rilevante per le aziende o – dicono gli estensori della ricerca – se questo dato sia invece sintomo della mancanza di una cultura organizzativa diffusa che sostiene la formazione come canale di comunicazione e sensibilizzazione fondamentale per la parità di genere».
Linguaggio inclusivo e molestie
Il 64,4% delle aziende del campione analizzato non fa uso di un linguaggio inclusivo, e sono piuttosto eterogenee per settore e dimensione aziendale, mentre nei contesti con una percentuale di donne superiore al 60% aumenta la diffusione di un linguaggio inclusivo. Tra le aziende del campione, il 48% usa un software whistleblowing (tradotto letteralmente software “fischietto”, si tratta di uno strumento che permette ai lavoratori e alle lavoratrici di segnalare le attività illecite svolte durante i processi lavorativi) per la raccolta anonima delle segnalazioni, mentre il 27% delle aziende non dispone di canali con cui i dipendenti e le dipendenti possono segnalare eventuali episodi di violenza subiti.
«Sono troppe le aziende che ancora si appoggiano a strumenti e canali che implicano che chi effettua le segnalazioni debba “metterci la faccia – conclude Vittoria Benfatto – che lasciano alla discrezione di chi riceve le segnalazioni stabilirne la gravità ed eventuali sanzioni, entrambi elementi che potrebbero fungere da deterrente per le vittime».
Conclusioni della ricerca
«Nel panorama delle aziende coinvolte nell’indagine, la diffusione del diversity management appare parcellizzata e limitata, nonostante non manchino aziende meritevoli che si distinguono dalle altre – sintetizza Claudio Riva –. Vi è una tendenza generale a riconoscere l’importanza di un modello organizzativo più attento ai lavoratori e alle lavoratrici, che tuteli l’equità di trattamento e l’inclusione sociale, nonostante di fatto questa consapevolezza rimanga ancora solo su un piano prevalentemente teorico per la maggior parte delle aziende. La cultura aziendale resta uno degli aspetti chiave su cui è fondamentale lavorare per innescare un cambiamento e renderlo permanente, evitando che le azioni e i processi messi in campo abbiano un impatto solo su un piano formale, correndo il rischio di trasformarsi in casi di pinkwashing aziendale, ovvero azioni apparentemente solidali messe in atto dalle aziende a favore delle donne».
«I persistenti divari di genere nelle organizzazioni in termini di bilanciamento generale e per mansioni, l’affidamento dei ruoli apicali e i differenziali retributivi e contributivi sono un aspetto critico per quanto riguarda il benessere lavorativo dei dipendenti e delle dipendenti e per la sostenibilità delle aziende – spiega Roberto Baldo, direttore del centro studi di Fòrema –. Non solo, in un periodo storico caratterizzato dalla generale mancanza di personale, il divario di 20 punti percentuali nel tasso di occupazione tra uomini e donne non è più tollerabile. Il diversity management rappresenta un approccio di gestione delle risorse umane che può fare da driver per il cambiamento delle organizzazioni, allineato agli obiettivi ESG. Queste dimensioni rappresentano inoltre alcuni dei KPI principali della certificazione UNIPDR 125:2022, dell’European Gender Equality Index e del Diversity Inclusion Index dell’istituto FTSE Russel LSG Business che molte aziende ancora ignorano. C’è tanto da fare».
«Conoscere il proprio contesto organizzativo è il primo passo verso il cambiamento – sottolinea Vittoria Benfatto –. Individuare i punti deboli e i punti di forza, i fabbisogni, le risorse e le opportunità offerte dal territorio sono elementi fondamentali per avviare un percorso di cambiamento che, però, non può prescindere da un cambiamento più profondo, che riguarda la cultura organizzativa, gli stereotipi e bias anche inconsci che contribuiscono a riprodurre discriminazioni e asimmetrie».
Metodologia e il campione analizzato
Il questionario è stato costruito identificando tre macroaree tematiche principali: a) processi HR (selezione, onboarding, valutazione delle prestazioni, tasso di turnover e di avanzamenti di carriera); b) work-life balance e tutela della genitorialità (welfare aziendale, flessibilità lavorativa e i servizi di tutela della genitorialità); c) formazione sui temi della diversità e del genere. In aggiunta a queste tre aree, nel questionario sono presenti altre due sezioni che riguardano: i dati anagrafici delle aziende che hanno risposto (dimensioni aziendali, settore produttivo, percentuale di donne presenti in azienda) e il posizionamento dell’azienda rispetto allo strumento di certificazione UNI PDR 125:2022, e la valutazione della sua efficacia. Il questionario è stato condiviso con 630 aziende tramite e-mail e la compilazione è avvenuta dunque in modo autonomo su Google moduli. In totale hanno risposto 90 aziende, il 14,3% di quelle contattate. Rispetto alle 424 unità imprenditoriali attive in Veneto nel 2023 (ISTAT) il campione contattato rappresenta una piccola percentuale, che restituisce una panoramica a tratti generalizzabile del panorama aziendale del territorio padovano. Il settore metalmeccanico è predominante nel campione analizzato, rappresenta infatti il 41% delle aziende totali e costituisce il 54,5% delle grandi imprese, il 42,9% delle medie imprese e il 37,1% delle piccole imprese. Piccole e medie imprese presentano un panorama settoriale più variegato con una predominanza nel settore della gomma plastica di cui compongono il 75%. Oltre due terzi del campione (72%) presenta una percentuale di donne pari o inferiore al 40%. I settori con una predominanza di forza lavoro femminile (maggiore all’80%) sono i servizi e la ristorazione, mentre i settori che presentano una minor percentuale di forza lavoro femminile sono i settori metalmeccanico (60% delle aziende totali), commercio, edile marmifero ed estrattivo; questo dato conferma una tendenza di segregazione occupazionale orizzontale già nota a livello nazionale. Anche le dimensioni aziendali sembrano giocare un ruolo fondamentale, in quanto le medie e grandi imprese mostrano una maggiore presenza di forza lavoro femminile rispetto alle aziende di piccole e micro dimensioni.