Il cervello del neonato, secondo uno studio dell’Università di Padova, sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita. Si tratta di un privilegio linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio.
Sappiamo per esperienza che è molto più facile imparare una lingua da bambini che da adulti e lo studio delle cosiddette “finestre di opportunità” dimostra che i primi mesi e anni di sviluppo sono fondamentali per l’acquisizione del linguaggio. Imparare una seconda lingua da adulti è molto più difficile, inoltre l’acquisizione del linguaggio inizia già durante il periodo di gravidanza durante il quale il feto può sentire il suono che si propaga – benché distorto – all’ interno del grembo materno. I bambini, quindi, hanno già avuto una certa esposizione alla lingua parlata dalla loro mamma anche prima di nascere.
Nello studio dal titolo “Prenatal experience with language shapes the brain”pubblicato su «Science Advances» i ricercatori hanno indagato quanto il cervello dei neonati sia influenzato da questa precedente esposizione al linguaggio.
«Ci siamo chiesti – affermano gli autori della ricerca – come cambia l’attività del cervello dei neonati dopo aver sentito delle frasi nella loro lingua o in altre lingue e abbiamo ipotizzato che questi cambiamenti siano la base neurale dell’apprendimento della lingua madre. Siamo quindi passati a misurare l’attività neurale dei neonati mentre ascoltavano frasi in francese, la loro lingua madre, così come in spagnolo e inglese, due lingue sconosciute. Tutto questo mediante l’elettroencefalografia, una tecnica standard di misurazione dell’attività neuronale. Il nostro studio mostra che l’attività neuronale è più complessa dopo l’esposizione alla lingua materna e conserva una memoria delle risposte neuronali date in passato. Infatti, queste risposte diventano più frequenti».
Per misurare questa forma di complessità nel dominio temporale abbiamo utilizzato una tecnica chiamata Detrended Fluctuation Analysis (DFA) che aiuta a capire quanto bene un sistema “ricorda” ciò che è successo prima e lo fa misurando quanto un processo sia simile a sé stesso a diverse scale di tempo. Possiamo chiamare auto-similare un processo in cui piccole variazioni si ripresentano allo stesso modo anche su scale temporali più lunghe (come quando una melodia si ripete in modo riconoscibile); all’opposto processi completamente aleatori (come i numeri generati dal lancio di un dado) non mostrano nessun tipo di regolarità, o memoria, e quindi hanno una complessità minore nella loro struttura temporale.
Il risultato principale della DFA è un numero α, chiamato “esponente di Hurst”: è questo α a contenere la chiave della “memoria” del segnale neuronale. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi neuronali più complessi.
«Abbiamo scoperto che quando a un neonato viene fatto ascoltare il linguaggio a cui è stato esposto durante la gravidanza, la sua attività cerebrale mostra un picco di α, cosa che non accade quando invece la lingua è diversa. Questo fatto – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – indica che nel cervello dei neonati, l’esposizione alla lingua materna innesca processi cerebrali di natura complessa, dinamiche neuronali che probabilmente sono associate all’elaborazione e apprendimento della lingua. Questi processi sono molto meno forti quando i neonati sentono un’altra lingua, e possiamo concludere che siano stati generati ed evoluti durante lo sviluppo prenatale. In altre parole, il cervello del neonato sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita e questa maggiore risposta indica una sorta di “privilegio” linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio. Si tratta di una rivelazione – conclude la professoressa Gervain – che mette in luce la straordinaria capacità di adattamento del cervello, soprattutto in relazione con la grande complessità del linguaggio umano».